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Il Combattente

 

 

Il Blog della Fondazione Comandante Libero

 

Che fare?

di Giorgio Fedel


«Sublimato all’un per mille titolò sprezzantemente un giornale di obbedienza littoria», quando a tutti i professori universitari italiani, nel 1931, fu chiesto di giurare fedeltà al regime fascista. La citazione di Simonetta Fiori, da «La Repubblica» del 16 aprile 2000, prosegue così:


Gli esiti del giuramento di fedeltà al fascismo – imposto ai professori universitari nel 1931 dalla regia di Giovanni Gentile – furono per Mussolini assai lusinghieri. Seppure sotto ricatto, su oltre milleduecento accademici, soltanto dodici [uno su mille, appunto] opposero un rifiuto […]. Tra coloro che giurarono fedeltà al duce figura il meglio della cultura antifascista, da Guido De Ruggiero ad Adolfo Omodeo, da Federico Chabod a Giuseppe Lombardo Radice, da Gioele Solari ad Arturo Carlo Jemolo, da Piero Calamandrei al mitico Giuseppe Levi. Alcuni erano persuasi che la battaglia antifascista andasse condotta dall'interno, ma per larga parte agiva il timore della miseria. […]. Sbaglia chi cercasse tra gli irriducibili dei “pericolosi sovversivi”. Gli accademici più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, che invitò i compagni professori a prestare giuramento. Mantenendo la cattedra, avrebbero potuto svolgere "un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo" (così Concetto Marchesi motivò a Musatti la sua scelta di firmare). Anche Benedetto Croce, stella polare dell’antifascismo, incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a rimanere all’Università, "per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà". Ci si mise anche il papa, Pio XI, che su idea di padre Gemelli elaborò un escamotage per i docenti cattolici: "giurate, ma con riserva interiore". Nonostante questa ciambella di salvataggio, gettata dall’influente troika, un’eroica minoranza disse di no […]. Diversi per estrazione sociale e radici culturali – altoborghesi e figli di tabaccai, religiosissimi e anticlericali, socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici – i dissidenti sono apparentati da una spessa moralità e da un’indole naturalmente fuori del coro. Nella vita di ciascuno di loro c’è un gesto dirompente – uno scatto ribelle, un moto di anticonformismo, forse una vena di follia – che appartiene, se non al loro personale carattere, al DNA familiare.»


Ed Eugenio Scalfari, ricordando il giorno in cui il Duce annunciò alla folla la presa di Addis Abeba da parte delle truppe italiane, scrive, quasi vantandosene:


il 5 maggio 1936 […]. Noi, giovani e adulti, eravamo tutti fascisti, salvo i pochi che avevano avuto la forza di sfidare il regime e languivano nelle carceri o erano espatriati.


Riccardo Fedel fu uno di quei «pochi». Egli lo attraversò tutto, quel lungo ventennio fascista e, con lui, lo attraversarono i suoi familiari, fino al termine della sua breve vita. Diversamente da altri, lo attraversò da «pericoloso comunista», ininterrottamente sorvegliato, inviato per vari anni al confino: li conobbe quasi tutti i “luoghi di villeggiatura” citati da un noto uomo politico non molto tempo fa (Silvio Berlusconi, nel 2003): Pantelleria, Ustica, Roccanova, Lagonegro, Isole Tremiti. Lunghi periodi di confino. Molte volte in carcere: brevi fermi cautelativi in occasione di visite illustri nelle città dove risiedeva; oppure arresti in attesa di processo; oppure condanne per tentativi di fuga dal confino o per aver altrimenti disapplicato le regole che il regime gli aveva imposto. Riccardo F. (così, d’ora in poi) non mancò l’appuntamento della lotta armata contro fascisti e tedeschi, dapprima allacciando contatti con antifascisti di Treviso, Venezia e Padova immediatamente dopo l’entrata in guerra dell’Italia; e poi mettendosi in contatto fin dai primissimi giorni del settembre 1943 appena se ne presentò l’occasione, con quei compagni d’arme conosciuti durante la guerra in Jugoslavia (tra gli altri, in particolare, Arrigo Boldrini) e che sapeva disponibili ad attivarsi subito per organizzare concretamente la Resistenza. I quadri della esistenza drammatica ed abbastanza extra-ordinaria di Riccardo F. fino al maggio-giugno 1944, fino alla sua morte, si dipanano linearmente: sono sequenze legate l’una all’altra da una ragionevole relazione di causa ed effetto, da una “comprensibile” coerenza interna.

Riccardo F. nasce nel 1906 in una famiglia di alta borghesia in decadenza (da parte di madre) e di piccola borghesia artigiana (da parte di padre), di cittadinanza austro-ungarica ma di etnia italiana; perde a sei anni il padre Biagio, migrante verso il Sud America, morto prima di sbarcare; fa vita da profugo delle Terre Irredente (dapprima agiata e poi via via sempre più stentata) con la nonna Clorinda Bousquet, la madre Augusta Bedolo e la sorella minore Anna: dall’Istria (a Gorizia) a Milano e, infine, a Mestre; studi a Milano, Tortona (in collegio), Treviso. È appena tredicenne nel 1919 quando, in settembre, D’Annunzio organizza a partire da Venezia il corpo di spedizione per l’impresa fiumana. La sua adolescenza (scritti, ideali, ecc.) è quindi segnata, lui di origini istriane e nipote di patrioti [ad es. Sebastiano Bedolo], da un clima diffuso di patriottismo, di irredentismo, di «Vittoria tradita», di D’Annunzio e di dannunzianesimo che lo porta, “naturalmente”, a dare la propria adesione di adolescente al nascente movimento dei Fasci di Combattimento di Mestre.Le dimissioni dai Fasci e l’arruolamento volontario, diciassettenne, nel Regio Esercito, completano e concludono questa fase della sua vita.In questo ambiente, nel primo dopoguerra, alla Scuola Allievi Sottufficiali di Modena, e poi a Bologna e a Ravenna, in un nuovo humus umano e culturale, si consolida la svolta ideale e politica: l’incontro con nuove, diverse, culture; la delusione per un Mussolini, ex socialista interventista, che ha decisamente cambiato ceti e classi di riferimento; la scoperta dell’ideologia comunista; la decisione di contrastare il nascente regime fascista.

Vi si opporrà, da allora, ininterrottamente: come saprà e come potrà, sopportandone le conseguenze in termini di prigionia, confino, sorveglianza ininterrotta, precarietà e, a tratti, miseria. Fino al 1941, quando avrà inizio la terza e ultima fase della sua vita: il richiamo alle armi, il servizio militare in Montenegro, il contatto con i partigiani jugoslavi; l’organizzazione, prima e dopo il Montenegro, in Veneto, di gruppi politici antifascisti clandestini; la scelta di combattere appena possibile, con le armi, i nazifascisti; l’organizzazione della Resistenza armata nell’Appennino tosco-romagnolo (con lo pseudonimo di Libero) dall’autunno 1943 fino alla morte, avvenuta per ordine e per mano di alcuni dei suoi ultimi compagni di lotta, sul finire della primavera del 1944.

Da questo momento in poi, come in una distopia orwelliana, il “romanzo” della vita di Riccardo F. viene riscritto. Vengono accuratamente cancellate le tracce della vita veramente vissuta; modificati o reinterpretati i capitoli salienti della sua storia; occultati o inventati avvenimenti; costruiti dal nulla fatti e documenti; distrutti per “ragioni superiori” gli archivi contenenti i documenti autentici:


E se i fatti invece dicono il contrario, allora bisogna alterare i fatti. Così la storia è continuamente riscritta. Questa quotidiana falsificazione del passato, intrapresa dal Ministero della Verità, è necessaria alla stabilità del regime almeno quanto il lavoro di repressione e spionaggio condotto dal Ministero dell’Amore. [George Orwell, 1984]


La storia della complessa vita di Riccardo F., quella offerta al pubblico dopo la sua uccisione, ricomincia quindi da zero: viene aperto il dossier della sua damnatio memoriae.Ricomincia dal Rapporto generale sull’attività militare in Romagna (8 settembre 1943-15 maggio 1944) firmato dal nuovo comandante della «8a Brigata garibaldina Romagna» Ilario Tabarri (Pietro Mauri) ed inviato al «Comando Unificato Militare Emilia Romagna» (CUMER) e da questo al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLN-AI) nel luglio 1944 a cose fatte (sul punto, Cfr. Nicola Fedel – Rita Piccoli, Saggio introduttivo all’edizione critica del Rapporto Tabarri, che data precisamente al 7 luglio 1944 l’invio del Rapporto da parte di Tabarri al PCI forlivese; ai primi di settembre l’invio di copia del Rapporto al CUMER e a fine settembre/primi di ottobre l’invio di un’ulteriore copia al CLN-AI), quando cioè Tabarri sapeva con certezza che il Rapporto non avrebbe potuto più essere smentito. Questo Rapporto non riguardava solo il periodo del comando di Tabarri (che lo assunse in sostituzione di Libero il 1° aprile 1944) ma copriva un periodo addirittura precedente alla fondazione della Brigata da parte di Libero. Come se la “vera” storia della Resistenza nella Romagna appenninica fosse cominciata solo con l’arrivo di Tabarri al distaccamento di Libero e tutto ciò che Libero aveva fatto prima fosse non solo da non condividere, ma da cancellare. Il Rapporto generale perciò “annulla e sostituisce” tutti i precedenti rapporti militari della Brigata, a chiunque fossero stati inviati. E questi documenti, infatti, vengono materialmente distrutti da Tabarri insieme a tutti gli altri relativi al periodo antecedente l’aprile-maggio 1944.Scrive Marzocchi, nella prefazione a L’8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza dell’Istituto Storico Provinciale della Resistenza di Forlì, senza un’ombra di perplessità:


I documenti riguardanti il periodo ottobre 1943-maggio 1944 vennero distrutti durante il drammatico rastrellamento dell’aprile 1944 allo scopo di sottrarli alla affannosa ricerca dei nazisti e dei fascisti, che si ripromettevano di utilizzarli contro l’antifascismo e la Resistenza.


Nell’opera sopra citata, che già nel titolo introduce una disinformazione, l’attività militare della “Brigata Garibaldi Romagnola” sviluppatasi sotto il comando di Libero viene raccontata senza alcuna documentazione di supporto per quanto riguarda il periodo ottobre 1943-maggio 1944 che non sia di provenienza tabarriana.

Ci informa infatti Marzocchi, sempre nella citata prefazione, che:


Il catalogo dell’archivio dell’8a Brigata Garibaldi Romagna è divenuto una realtà in primo luogo perché l’ex comandante di questa formazione, Ilario Tabarri (Pietro), raccolse e conservò i documenti censiti nel catalogo stesso […]. [Egli] si dedicò […] alla loro ordinazione che, sostanzialmente, è rispecchiata da quella attuale.


Il Rapporto generale viene così presentato:


Il doc. ha per titolo Rapporto generale sull’attività militare in Romagna (8 settembre 1943-15 maggio 1944). È firmato Pietro Mauri. Fu spedito per conoscenza al Comitato di Liberazione Nazionale. È da presumere che il rapporto sia stato redatto in maggio, dopo il pesante rastrellamento antipartigiano del mese di aprile 1944. Il testo che presentiamo è assai diverso da quello pubblicato in Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, vol. I, a cura di G. Carocci e G. Grassi, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 407-419. Sarebbe troppo lungo segnalare le varianti in quanto quel rapporto – scrive a Pietro Mauri l’ufficiale di collegamento del CUMER Renzo – «l’ho quasi tutto rifatto», prima d’inviarlo al CLN nazionale […]. Riproduciamo quindi la stesura originale del documento, che si differenzia da quella ritoccata per una maggiore asprezza dei toni e per una più accurata analisi delle insufficienze politiche e organizzative che avevano contribuito, anche se forse non nella misura denunciata in certi passi da Pietro Mauri, alla disorganizzazione e alla temporanea dispersione delle forze partigiane in seguito al massiccio rastrellamento di aprile.


Per parte loro, i curatori de Le brigate Garibaldi nella Resistenza citate, commentando il Rapporto Tabarri riscritto da Renzo (Primo Della Cava), scrivevano:


Il doc. (il cui testo è particolarmente scorretto) fa parte delle “Cronache della 8a brigata garibaldina Romagna” del Comando unico Emilia Romagna. Redatte dopo il 15 maggio 1944 - mese nel quale la formazione di Pietro Mauri assunse la denominazione di “8a Brigata Romagna”, le cronache precedono presumibilmente il primo “bollettino” del Comando unico, del luglio 1944. È quindi da presumere che il doc. sia stato redatto nel mese di giugno […]. Il rapporto è preceduto dalla seguente presentazione del Comando unico Emilia Romagna: «In queste pagine si nota con tutta evidenza la preoccupazione del comandante della divisione di dare una spiegazione al crollo delle sue formazioni avvenuto durante il rastrellamento che fu fatto dai tedeschi con forze soverchianti».


L’edificio della “nuova” biografia di Riccardo F. trova quindi il suo primo pilastro portante nel Rapporto Tabarri, opera di complessiva e radicale delegittimazione del precedente Comandante. Rapporto che, seppur in un primo momento recepito dal CUMER con alcune riserve, viene infine inviato al Comando Nazionale del Corpo Volontari della Libertà accompagnato da un ampio panegirico:


Il giovane comandante Pietro, già ottimo garibaldino in Spagna, è uno come le altre centinaia di giovani ardenti di Romagna, che ha saputo e sanno trovare la via giusta nell’inf[i]erire della battaglia.[12]E così seguitando, con uno stile di sempre più esagitata retorica abbastanza inusuale in un documento militare interno (da CUMER a CLN Alta Italia), scritto peraltro (sempre che questo peana sia davvero stato scritto allora) mentre la Guerra e la Resistenza ai nazi-fascisti erano ben lungi dall’essere concluse (Cfr. Nicola Fedel – Rita Piccoli, Saggio introduttivo all’edizione critica del Rapporto Tabarri cit. ).


Il secondo pilastro, indispensabile per la tenuta del primo, è con tutta evidenza costituito dalla totale distruzione dell’archivio della Brigata (e non solo) relativo ai fatti accaduti sotto la direzione del suo primo organizzatore e comandante.

Il terzo pilastro è, infine, costituito dal già citato Resistenza in Romagna di Flamigni-Marzocchi[13], opera «fondamentale» ai fini della damnatio memoriae di Riccardo F. perché, fin dal 1969, confermò la narrazione dei fatti (non distinta dalle opinioni) contenuta nel Rapporto Tabarri, aggiungendovi del suo: la notizia che il nome di Riccardo F. fosse stato inserito negli elenchi (provvisori) dei confidenti dell’OVRA pubblicati nel 1946, lasciando intendere che il fatto fosse collegato all’attività partigiana. Il tutto fatto in modo particolarmente autorevole e "definitivo", posto che Flamigni divenne, nel dopoguerra, un eminente e potente uomo politico, massimo esperto per il Partito Comunista Italiano, subito dopo Ugo Pecchioli, dei problemi della sicurezza interna, membro di Commissioni parlamentari di grandissima rilevanza pubblica (P2, antimafia, ecc.): un "alto magistrato" non togato. Nessuno poteva/doveva più dubitare. Il dibattito che non aveva mai cessato di serpeggiare tra i partigiani e la popolazione dell’area sulle vere ragioni della scomparsa/eliminazione di Libero e le polemiche sulle incredibili (per chi lo aveva conosciuto durante il suo comando) accuse mossegli, potevano/dovevano dunque cessare.

Su questi tre pilastri si è costruito l’edificio della nuova biografia di Riccardo F.: i fatti accaduti dall’8 settembre 1943 al 15 maggio 1944 alla brigata fondata da Libero sono quelli – e solo quelli – raccontati dal Rapporto Tabarri; Tabarri (o chi per lui) distrugge tutti i documenti dell’archivio della Brigata «allo scopo di sottrarli alla affannosa ricerca dei nazisti e dei fascisti, che si ripromettevano di utilizzarli contro l’antifascismo e la Resistenza», scrive Marzocchi. Ma se questo può esser stato vero per la Brigata, sarebbe quantomeno curioso dover prendere atto della distruzione, negli archivi di tutti gli altri enti mittenti o riceventi, dei soli documenti antecedenti l’aprile del ‘44; Sergio Flamigni (con Luciano Marzocchi) conferma e avalla ogni cosa assumendo, nel suo Resistenza in Romagna, il Rapporto Tabarri come unica fonte veridica dei fatti. E considerando l’iscrizione negli elenchi provvisori dei confidenti dell’OVRA (in verità annullata nel 1948, su ricorso della famiglia di Riccardo F., con la formula più ampia e definitiva) come la prova presunta della “doppiezza” di Libero. Dopo di lui, tutti (o quasi), faranno riferimento – acriticamente – alla sua opera. Tant’è che gli stessi curatori della raccolta Feltrinelli, a chiusura della nota di presentazione del Rapporto Tabarri-Della Cava scriveranno (nel 1979): «Sui fatti documentati e per ogni altra notizia sulla formazione, si veda Flamigni-Marzocchi, pp. 125-138, 163-173, 174-182». A queste sole fonti hanno attinto molti degli autori delle numerose opere, articoli, saggi e note biografiche che si sono nel tempo accumulate su questo insieme di argomenti. Ogni autore ha citato uno dei suoi predecessori e tutti hanno citato, come «fondamentale», il lavoro di Flamigni-Marzocchi.

Quasi nessuno è andato a verificare sui documenti la veridicità delle affermazioni contenute nel primo e nel terzo pilastro. Ammesso che, davvero, fosse stato necessario distruggere quelli conservati presso la Brigata mittente o destinataria, nessuno è andato a cercare negli archivi dei riceventi e dei mittenti i documenti relativi alla Brigata.Nessuno ha controllato se la presunta vicenda OVRA fosse legata o meno al periodo resistenziale o quale fondamento avesse nel concreto; nessuno si è accorto (o si è voluto accorgere) che il nome di Riccardo F. era stato definitivamente cancellato dagli elenchi provvisori dei presunti confidenti del regime in seguito a regolare ricorso, con la più ampia formula di “assoluzione” nel merito. Nessuno è andato a consultare gli archivi delle forze armate tedesche e britanniche, desecretati da più di trent’anni.

Il risultato finale di questa orwelliana opera di cancellazione e riscrittura dei fatti è stata una biografia pubblica di Riccardo F. del tutto difforme da quella privata. Una biografia “schizofrenica”, priva di riscontri documentali diversi dal Rapporto Tabarri e suffragata quasi esclusivamente da dichiarazioni di attori personalmente coinvolti nell’uccisione di Libero e quindi personalmente interessati a quella particolare versione, perché una diversa avrebbe potuto farli incriminare.

Le istituzioni partigiane (ANPI e Istituti Storici della Resistenza) nel tempo, per ragioni intuibili (seppur incomprensibili), saranno via via sempre più allineate.

E allora, che fare? Cosa, per ricomporre la frattura? Per rendere pubblicamente conoscibile ciò che realmente accadde tra l’11 settembre 1943, giorno della certa partecipazione di Riccardo F. alla riunione di Milano Marittima fondativa del movimento resistenziale in Romagna, e il 27 marzo 1944, data che Tabarri indica idealmente come termine del precedente periodo di governo della lotta armata e inizio della “vera” Resistenza?


(Tratto da Giorgio FEDEL, Storia del Comandante Libero, 2013, pp. 12-20)

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