La uccisione del Comandante Libero e la "scomparsa" della prima Resistenza armata in Romag
di Nicola Fedel
Riccardo Fedel (Libero Riccardi) venne ucciso nel giugno del ‘44 da una fazione di partigiani della Brigata Garibaldi Romagnola che lui stesso aveva fondato e guidato per oltre 4 mesi, dal novembre ‘43 all’aprile ‘44. Motivazioni e circostanze di questa uccisione non sono mai state del tutto chiarite.
Di certo si sa che nell’aprile del ’44 la Brigata subì un pesantissimo rastrellamento che ne determinò lo sbandamento. E che la fazione citata, composta da non più di 5 uomini, ebbe modo – eliminato in segreto Libero e distrutti tutti i documenti della formazione anteriori al rastrellamento – di fornire ai comandi superiori (del PCI e del CLN) una ricostruzione dei fatti tesa a giustificare il proprio operato.
Questa versione, dovendo spiegare le ragioni di un improvviso esautoramento, faceva semplicemente scomparire quanto Libero e gli oltre 1000 partigiani da lui guidati avevano fatto di buono nei mesi precedenti ed invece enfatizzava (o inventava) errori e inefficienze.
La “narrazione dei 5” ebbe, in effetti, una certa fortuna storiografica, tanto da divenire luogo comune che la Resistenza in Romagna fosse sorta “veramente” solo dopo la defenestrazione del Comandante Libero e la nascita della nuova 8a Brigata, ciò lasciando spazio ai noti interrogativi di Bocca circa le ragioni del “misterioso ritardo dell’Emilia-Romagna”.
Ma già sul finire degli anni ’70, questa ricostruzione non resistette ad una lettura critica delle fonti: le accuse mosse a Libero vennero allora considerate da molti storici (Mengozzi e Bedeschi, per citarne alcuni) quantomeno esagerate ed il rilievo della prima Resistenza romagnola parzialmente recuperato (Bonali, Bergonzini ed altri). Negli ultimi anni, poi, sempre più voci si sono levate per affermare, in positivo, l’importanza della figura di Libero nella Resistenza (Graziani in primis).
Sono quindi ormai più di 30 anni che, per dirla con Bedeschi, “il significato e il valore dell’opera di Libero quale primo comandante dei ribelli in questa zona dell'Appennino è tra le problematiche apertamente dibattute nelle sedi scientifiche” e non solo.
Tuttavia, la mancanza di fonti neutrali e coeve ed il radicalizzarsi di posizioni forse più politiche che storiografiche, hanno impedito di superare un’impasse per la quale, ancora oggi, il nome di Libero non appare nella lista dei caduti della Resistenza romagnola.
Quindi, per tutta una serie di ragioni, a partire dal 2003 abbiamo avviato una ricerca negli archivi italiani ed esteri che ci ha portato a scoprire alcuni fondamentali documenti (Rapporto dei generali britannici Combe-Todhunter anzitutto) sulla cui base è diventato possibile dis-velare fatti mai raccontati.
Fatti documentati che stiamo presentando, per un’interpretazione condivisa, all’attenzione della comunità scientifica e delle associazioni partigiane, anche attraverso convegni di studio promossi dagli Istituti Storici della Resistenza: il 1° promosso dall’ISR dell’Emilia-Romagna; il 2° dalla Fondazione “Luccini” di Padova e gli ISR di Treviso e Venezia; il 3° – che si terrà a dicembre – dagli ISR di Ravenna e Rimini.
La storia di Libero comincia l’11/9/43 all’Hotel Mare-Pineta di Milano Marittima: riunione fondativa della Resistenza romagnola –lato PCI, cui partecipano, oltre a Riccardo (classe 1906) ed Arrigo Boldrini, altre 8 persone, tutte figure di primo piano del partito comunista (da Gordini a D’Alema a Cervellati…). A Libero vengono affidati compiti operativi di comando militare. Ma per capire che ci facesse in un simile consesso, dobbiamo fare un passo indietro. Nel ’40, Riccardo (34enne), eludendo la ultradecennale sorveglianza cui è sottoposto quale “comunista pericoloso”, è animatore, in Veneto, di un gruppo di propaganda antifascista, di cui fanno parte altri futuri comandanti partigiani di varie fedi politiche. Progressivamente, tutti i componenti di questo gruppo sono chiamati sotto le armi. Riccardo, col grado di Sergente Maggiore, è inquadrato nel 120° RGT Fanteria “Emilia” e inviato in Montenegro. Qui fa la conoscenza del Ten. Arrigo Boldrini, col quale condivide alcune esperienze di fraternizzazione con la Resistenza jugoslava che, in teoria, il 120° avrebbe dovuto contrastare. I due diventano buoni amici e, rientrati per vie diverse in Italia nel ‘43, riprendono contatto dopo il 25 luglio.
Dopo aver contribuito a liberare dai treni piombati numerosi militari italiani; esser passato da casa per salutare la famiglia; aver partecipato alla riunione dell’11 oltre che ai combattimenti di Gorizia del 13-18 settembre, Riccardo torna nel ravennate per assumere l’incarico assegnatogli. Con lui, alcuni patrioti friulani, tra i quali Zita Chiap (partigiana combattente che sarà anch’essa uccisa dalla “fazione dei 5”). Libero, dunque, è un antifascista di vecchia data, diventato tale già negli anni ’20 con un percorso non banale. Inoltre, è “rimasto sempre in contatto” con i comunisti romagnoli (come ci fa sapere Bulow) che lo conoscevano bene.
Di famiglia giuliana alto borghese e irredentista, rimane orfano di padre a 6 anni e si trasferisce con la famiglia da Gorizia (allora austriaca) a Milano e poi, nel ‘20, a Mestre. Sempre nel ‘20, a 14 anni, Riccardo si iscrive ai Fasci di Combattimento. Poco dopo, diventa uno squadrista e nel ‘21 conferma la sua scelta iscrivendosi al PNF, addirittura partecipando alla Marcia su Roma (occupando, 16enne, la stazione di Mestre). Già nell’ottobre del ’23, l’infatuazione finisce: “con una lettera un po’ vivace” rassegna – a 17 anni – le dimissioni dal partito e matura sentimenti comunisti, tanto da far sospettare, in ambienti fascisti, “che la sua iscrizione al PNF avesse unicamente lo scopo di spiarne l’organizzazione e gli atti”. Anche se è più probabile che, semplicemente, il fascismo di governo lo avesse deluso. Anche la frequentazione con il padre della sua fidanzata Anita può esser stata determinante: Girolamo Piovesan detto Natale, sindacalista anarchico dei panificatori, noto al Casellario come “propagandista instancabile”.
Dopo questa svolta politica, Riccardo parte militare come sergente di complemento. Trasferito a Ravenna, nel ‘25 “entra in relazione con alcuni militari sovversivi con i quali frequenta ritrovi di comunisti, e le relazioni si fanno tanto strette da progettare con essi la sottrazione di tutte le armi custodite nell’armeria della Caserma”. La “bravata”, tentata pochi giorni prima del congedo – su provocazione di agenti della Ceka fascista – gli costa, nell’ordine: la sorveglianza “a vista”, 3 mesi di galera, una denuncia per complicità nell’attentato Zaniboni-Capello, varie “bastonate a sangue” e infine – appena approvate le leggi fascistissime – 3 anni di confino politico perché “comunista pericolosissimo capace di organizzare attentati”.
Il viaggio per Pantelleria – sua prima destinazione – è un incubo a occhi aperti (che Riccardo racconta in un diario, fortunosamente ritrovato all’Archivio Centrale). Nell’isola, inoltra appello contro la condanna, rivendicando il diritto a professare le sue idee comuniste, “che solo arbitrio di governo o di partito possono violare”. Naturalmente, l’appello è respinto e Riccardo trasferito a Ustica. E qui, dopo qualche mese, si ammala gravemente.
La liberazione condizionale per motivi di salute gli è concessa solo in cambio della promessa di testimoniare al procedimento che si stava istruendo contro Bordiga e altri confinati accusati di un fanta-complotto. Subito dopo, a Riccardo viene offerta l’ulteriore “possibilità” di diventare un confidente della Polizia. E lui – apparentemente – accetta. Siamo nell’ottobre del ’27, e Riccardo ha 19 anni. Che sia stato un autentico cedimento – poi subito rinnegato – ovvero una simulazione premeditata, non sappiamo dirlo. Certo è che nei 13 giorni trascorsi a Gorizia (nel novembre ‘27), Riccardo “non esita a ordire le più basse macchinazioni evidentemente al solo scopo di provocare malcontento e disordini contro il regime”. Rispedito a Mestre con foglio di via, ci riprova nel marzo del ’28 “spacciandosi per confidente anche a Pordenone”, dove riesce, in questo modo, a distribuire dei volantini di propaganda comunista durante lo sciopero dei tessili (uno dei pochi) di quell'epoca. In seguito a questa operazione, il capo della Polizia Bocchini si persuade di avere a che fare con un pericoloso agente del PCI e ne ordina, in prima persona, l’immediato arresto e l’invio al confino per ulteriori 3 anni, questa volta in Lucania. Nel frattempo, al processo di Palermo contro Bordiga, Riccardo rende una deposizione – quasi comica – determinante per l’assoluzione di tutti gli imputati.
Per una misinterpretazione di queste azioni (o forse per interessamento di qualcuno), nel ‘46 il suo nome è inserito nelle liste provvisorie dei confidenti del regime pubblicate dalla Commissione Cammarsa; dalle quali è cancellato nel ’48, con la più ampia delle formule di “assoluzione nel merito” che la Commissione Cataldi, incaricata di correggere eventuali errori, poteva utilizzare.
Inviato al 2° confino – primavera ’28 – Riccardo continua a farsi notare per atteggiamenti provocatori nei confronti del fascismo, finché nel giugno ’29 si sposa per procura con Anita e sembra “quietarsi”: la moglie lo raggiunge e rimane incinta in agosto e, rientrata a Mestre, lo convince ad acconsentire che lei presenti istanza per un atto di clemenza. Ricevuta notizia del rigetto della richiesta nel febbraio del ‘30, “visti i precedenti”, Riccardo reagisce tentando la fuga. Catturato, viene condannato a oltre 17 mesi di carcere, che sconterà ad Avellino. E mentre è detenuto, nasce e muore il suo primogenito, senza che lui riesca a vederlo nemmeno una volta. Da qui in avanti, il suo atteggiamento verso il regime perde ogni forma “canzonatoria”. Terminato poi di scontare il confino alle Tremiti, nel settembre del ’31 si riunisce finalmente alla moglie.Nel ’33 – 27enne – seguendo probabilmente le direttive del PCI destinate ai militanti sorvegliati, cerca di passare in clandestinità, ma dopo 9 mesi è scoperto e condannato ad altri 6 mesi di carcere. Dopo di che, secondo la questura, “nulla da segnalare” o quasi: alcuni richiami sotto le armi, l’attività di grafico e disegnatore a Milano e poco più.
Dei "nulla" che, dal ‘40 in avanti, diventano qualcosa di sempre più grosso anche se invisibile al regime. Finché, nel ’44, Libero è tra i due “banditi” più ricercati dalla Wermacht in Romagna (l’altro è Corbari). E già dal dicembre ’43 gli abitanti del Dipartimento del Corniolo – prima, misconosciuta, più estesa e duratura repubblica partigiana d’Italia – pagano le tasse alla sua Brigata anziché alla RSI.
I partigiani di Libero si procurano armi saccheggiando le caserme della GNR e assalendo pattuglie di tedeschi e fascisti e inducendo i Carabinieri a unirsi a loro. La Brigata è del tutto autosufficiente: gli uomini ricevono “15 lire al giorno a testa per il vettovagliamento”, denaro procurato grazie a rapine alle banche e agli uffici postali. Quanto alle armi: “tutti gli uomini [oltre 1000 a fine marzo ’44] sono equipaggiati con una carabina o qualcosa di meglio” e "si può contare sull’85% di loro per la guerriglia” anche se scarseggiano “esplosivo, munizioni e caricatori”. E’ quanto ci fanno sapere il 1° giugno ’44 i generali britannici Combe e Todhunter, che aggiungono: “l’obiettivo di Libero era quello di rendersi sufficientemente forte da continuare ad attaccare tedeschi e fascisti per guadagnare il controllo delle strade transappenniniche nella sua area”. Appunto per questo, i due generali concordano con Libero dei lanci di armi e munizioni, poi effettuati ad aprile.
I tedeschi, nei loro rapporti, citano Libero anche per le sue “pericolose” politiche verso i mezzadri, che contribuiscono ad aumentare il sostegno della popolazione per i partigiani.
Entrambi gli schieramenti sono quindi consapevoli del pericolo/opportunità rappresentato dalla Brigata romagnola. Da parte tedesca, ciò si traduce nell’ordine (partito da Mussolini e Hitler in persona) di dare priorità ai rastrellamenti sulla Gotica orientale, arrivando addirittura a trattenere a Cesena un battaglione diretto ad Anzio (nel gennaio del ’44). Da parte britannica, i due generali “convinti che le attività dei partigiani possano essere utilizzate con risultati eccellenti”, sviluppano questo piano:
«giunse voce ci fossero altre bande di partigiani in Toscana e a […] Pesaro […] e spingemmo affinché (le 3) bande […] potessero […] coordinare le loro attività […] sotto un comando unificato. (Dopo) una marea di discussioni […] si raggiunse l’intesa secondo cui, pur rimanendo entità separate e responsabili verso i propri comitati a Firenze, Forlì e Pesaro, le 3 bande sarebbero state coordinate da un’autorità militare centrale […]. Posto che nulla sia accaduto per rovinare il piano, dovrebbero ora esserci, sotto il controllo di Libero, in un’area che spazia dall’ovest di Firenze alla costa di Pesaro, 10mila partigiani (per i quali) sarà possibile bloccare tutte le strade trans-appenniniche […] quando i tedeschi cominceranno a ritirarsi».
Quel “nulla”, purtroppo, accadde.
Già pubblicato in "Lettera ai Compagni", n. 6, anno XXXVIII (2009), p. 39 e ss.