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Il Combattente

 

 

Il Blog della Fondazione Comandante Libero

 

Per festeggiare il 70° anniversario del 25 aprile: la verità sul Caso Libero rivelata nel testamento

Era l’inizio di luglio del 2014. Il 25 aprile di quell’anno sul Corriere della Sera usciva un annuncio a tutta pagina per ricordare il 70° anniversario dalla morte, purtroppo avvenuta per mano partigiana, di Riccardo Fedel, il comandante Libero.

Proprio in quei giorni di aprile, il figlio di Libero, Giorgio Fedel, veniva ricoverato per accertamenti, in seguito ai quali scopriva di essere gravemente ammalato.

Chiuso il lavoro di redazione del suo saggio La prima Resistenza armata in Italia (con la prefazione del prof. Varsori), si rende conto di non avere ulteriore tempo a disposizione, e decide di scrivere una Nota di chiusura. Una sorta di testamento spirituale, nel quale espone la sua verità sull’uccisione del padre. Una verità “provvisoria”, frutto delle ricerche di anni, che ha sentito l’urgenza, a pochissime ore dalla sua morte, di far conoscere in modo diretto alla comunità degli storici e dei democratici italiani.

Avvicinandosi la ricorrenza del 70° anniversario della Liberazione, pubblichiamo il suo scritto, che riteniamo onori la memoria della Resistenza ed il pensiero democratico italiani.

Mentre sta andando in stampa questo mio saggio, che ha l’ambizione, spero non infondata, di rappresentare un tassello importante nel panorama della storiografia sulla Resistenza (soprattutto nel metodo), mi trovo a combattere con un adenocarcinoma polmonare in stadio molto avanzato, che sta sempre più rapidamente fiaccando la mia resistenza. È questa, dunque, forse l’ultima occasione che mi rimane per esprimere pubblicamente – seppur in sintesi – ciò che speravo di aver tempo di illustrare ed argomentare diffusamente nella monografia su Riccardo Fedel ed il suo antifascismo “lungo”, cui sto lavorando con mio figlio Nicola da almeno tre anni. Mi si perdonerà, perciò, se approfitto della presente pubblicazione per aggiungere una nota (quasi) fuori tema. Sono nato il 14 luglio 1936. Ho quindi ormai quasi compiuto settantotto anni. Ma come ho avuto modo dire in un’occasione pubblica a Santa Sofia nel 2011, una parte di me è rimasta a quando avevo otto anni, a quando mi dissero che mio padre era morto da partigiano. Era la primavera del 1945. In quel periodo, quasi tutti quelli che erano partiti per la guerra, militari “regolari” o partigiani o internati nei campi di concentramento (come mio zio, Armido Piovesan), tornavano a casa. Ma mio padre non tornò. Noi, i miei due fratelli (Luciano il maggiore, Bruno il più piccolo) ed io, lo attendemmo per giorni e giorni, di vedetta all’imbocco della strada che portava a casa nostra a Mogliano, nel trevigiano, dove c’eravamo trasferiti all’inizio della guerra. Mia madre, gli zii, i nonni veneziani, la nonna paterna, dopo diversi mesi, ci dissero che il papà era stato un eroico comandante partigiano (nome di battaglia Libero Riccardi) che in Romagna, nella primavera del 1944, dopo un grande rastrellamento tedesco, era scomparso; che quasi certamente era morto. Morte presunta, ci dissero: perciò io, irragionevolmente, continuai ad attenderlo… E si sa cosa succede ad un bambino in questi casi: cresci e diventi adulto apparentemente come tutti gli altri, ma diversamente dagli altri, accanto a te sta, invisibile, silenzioso, quel bambino che non cresce, che ti tira ogni tanto per la giacca e ti chiede: « quando torna? ». E quando capita, lancinante, quel ricordo-domanda, mi si riempiono gli occhi di lacrime, che nascondo a figli e nipoti pulendo occhiali perfettamente trasparenti, ancora oggi, in questi giorni faticosi.


Mio padre fu ucciso da altri partigiani, per ragioni e in circostanze che è stato molto difficile accertare sul piano storico. In questi anni, abbiamo costantemente cercato di condividere gli esiti (sempre provvisori) delle nostre indagini con la comunità scientifica e l’opinione pubblica. Ed è quello che intendo continuare a fare con questo mio scritto, cui deve però essere attribuito un senso più politico che storiografico. Sul piano storiografico, infatti, mi sto accingendo a compiere un atto discutibile almeno quanto quello, da me criticato, di Pavone. Mi sto accingendo, cioè, ad indicare delle ipotesi, lasciando a chi verrà dopo di me il compito di verificarle (o, per essere epistemologicamente più precisi: falsificarle). Ho l’unica scusante, ritengo, di non farlo per pigrizia, ma per cause di forza maggiore. Alcune di queste ipotesi sono in realtà state già ampiamente suffragate da prove documentali e testimoniali e addirittura sono già state inserite in varie pubblicazioni. Altre, invece, si trovano ad uno stadio più acerbo, ma rappresentano, in questo preciso momento, l’intima convinzione che mi sono fatto di cosa sia effettivamente accaduto: di quale sia la “verità”. Ed è un’intima convinzione che sento di dover esprimere direttamente, assumendomene in prima persona la piena ed esclusiva responsabilità. Essendo convinzioni basate su fatti, prove e indizi raccolti in anni di ricerca (e non illazioni infondate), cercherò di indicare, almeno a grandi linee, i filoni documentali o storiografici ai quali attingere per un riscontro. Naturalmente, non mi esimerò dall’esprimere opinioni personali, avvalendomi ampiamente, in questi casi, del diritto di critica, con modalità – mi auguro – meno violente e scorrette di chi, su Riccardo Fedel (su mio padre), ha pensato invece, in questi anni, di potersi esprimere senza alcuna continenza. Punto primo: mio padre venne assassinato. Non «ucciso» (come qualcuno mi pregava di dire, per essere più politically correct). Né, tantomeno, «giustiziato». La verità è che mio padre venne brutalmente assassinato. Come peraltro “certificato” dalla Procura Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di Padova, la quale ebbe modo di occuparsi del caso nel 2008, a seguito di un mio esposto-denuncia. All’epoca, l’inchiesta venne archiviata perché ritenuto troppo arduo, dato il tempo trascorso, scoprire i responsabili. Ma il fatto-delitto venne qualificato come «violenza con omicidio». Ed io mi sono permesso di concludere l’indagine privatamente. Da quanto scoperto, risulta che gli esecutori materiali dell’omicidio premeditato di mio padre (commesso tra la fine di maggio ed i primi di giugno del 1944, in un casolare isolato di campagna tra Meldola, Ronco e Forlimpopoli), siano stati:

  • Annibale Bertaccini;

  • Adelmo Lotti, detto Boris;

  • Renato Morigi, detto Scalabrino.

Questi tre uomini furono, con ogni probabilità, solo “l’arma del delitto”. Essi infatti, in quel momento, non erano consapevoli di quanto stavano facendo (e questo vale sicuramente per Adelmo Lotti; un’ulteriore verifica andrebbe fatta su Bertaccini e Morigi, noti per la condanna subita nel 1958 per i fatti di Thiene del maggio ’45). A dircelo sono il racconto di Adelmo Lotti (riferito dal figlio Boris Lotti a Natale Graziani) e di Renato Morigi (a me riferito da Sergio Lolletti, al quale fu però impedito da Jader Miserocchi di avere un secondo colloquio con Scalabrino). I mandanti dell’omicidio, e quindi i veri colpevoli, risultano essere stati:

  • Ilario Tabarri, detto Pietro;

  • Guglielmo Marconi, detto Paolo.

I due decisero di assassinare Libero senza aver ottenuto alcuna autorizzazione dai comandi superiori e senza, tantomeno, che fosse emessa sentenza da alcun Tribunale Partigiano, nemmeno autoproclamato. La mia opinione è che lo fecero perché, nonostante avessero cercato di scaricare su Libero le (loro) responsabilità per lo sbandamento della brigata dell’aprile ’44, i comandi di pianura (conclusa un’inchiesta) decisero di designare nuovamente Libero come comandante dei partigiani romagnoli di montagna (come, con una frase ellittica ci fa sapere Arrigo Boldrini nel suo Diario di Bulow in data 11 maggio 1944). A quel punto, Tabarri e Marconi, forse comprensibilmente preoccupati delle conseguenze personali, forse sinceramente convinti di agire per il bene del Partito e della Resistenza (nonostante la diversa opinione degli organi direttivi), decisero di intercettarlo dal rientro dal Veneto e di ucciderlo, facendo “sparire” il corpo (mai più reso, né ritrovato) e ordinando a tutte le persone coinvolte di mantenere il segreto, per sempre. Qualche settimana dopo, Tabarri e Marconi uccisero (o fecero uccidere), probabilmente per il timore che potesse troppo “agitare le acque”, anche Zita Chiap, la staffetta diLibero (e forse sua compagna in quei mesi). Complici di Tabarri e Marconi nel premeditare gli omicidi risultano essere stati:

  • Umberto Macchia, detto Pini;

  • Jader Miserocchi;

  • Luigi Fuschini, detto Savio (almeno fino al 22 aprile 1944).

Tengo a dire che sono perfettamente in grado di comprendere le motivazioni degli assassini di mio padre, siano esse state politiche o, come credo, personali (il timore di essere “epurati”). Così come sono in grado di esprimere un giudizio tutto sommato indulgente sul loro operato (viste le categorie culturali che essi possedevano e le circostanze straordinarie che si sono trovati a vivere). La cosa che fatico a giustificare, invece, è la mancata restituzione del corpo di mio padre alla sua famiglia (Cfr. Lettere di Tabarri ad Anna Fedel), perché è dai tempi dell’Iliade che un tale rifiuto costituisce un crimine contro l’umanità. Favoreggiatori degli assassini (con il termine intendendo chi consentì loro di sfuggire alla giustizia, negli anni successivi) risultano essere stati (in tempi diversi e con differenti livelli di responsabilità):

  • Ilio Barontini, detto Dario;

  • Adamo Zanelli, detto Jean;

  • Sergio Flamigni;

  • Luciano Marzocchi;

  • Pietro Secchia, detto Vineis.

E forse, successivamente, anche Arrigo Boldrini e Luigi Longo. Ritengo che i favoreggiatori siano intervenuti esclusivamente per motivi politici: evitare che il Partito comunista italiano (o qualche suo esponente di punta) fosse sottoposto a processi penali o ad attacchi mediatici. Alcuni di questi, però, credo abbiano peccato di eccesso di zelo. Mi riferisco a Sergio Flamigni e Luciano Marzocchi i quali, negli anni Settanta, arrivarono, come ho scoperto, a prendersi gioco di mio fratello Luciano, assicurandogli di aver preso a cuore la vicenda di Libero e di condividere l’intento di restituirgli l’onore, mentre iniziavano un’opera sotterranea di ulteriore diffamazione della memoria di mio padre e, ne sono convinto, avviavano l’opera di occultamento e distruzione dei documenti “compromettenti” negli archivi del Partito comunista. Con grandissima amarezza, ho di recente scoperto che anche l’ex onorevole Elio Fregonese (che consideravo mio padre putativo) prese parte a questo “crimine contro la verità”, forse nella speranza che ciò lo potesse aiutare a far carriera nel Partito. Il “danno collaterale” di questo favoreggiamento è ancora oggi rappresentato dal «buco nero della storiografia» che il presente saggio ha voluto contribuire a illuminare. Le ragioni politiche dell’esistenza di questo “buco” sono cessate nel 1989. Eppure, in Romagna, in alcuni ambienti, il tempo sembra es­sersi fermato. All’Istituto Storico della Resistenza di Forlì (ancora oggi egemonizzato dalla famiglia Flamigni), nelle Anpi romagnole e, di conseguenza, nei comitati direttivi degli Istituti storici di Ravenna e Rimini, incapaci di sottrarsi alle strumentalizzazioni politiche e di svolgere quel ruolo esclusivamente scientifico che i loro statuti li obbligherebbero a svolgere, permangono sacche di stalinismo che sarebbe doveroso, sul piano della politica culturale di questo Paese, sradicare. Tutto quanto precede risulta: da documenti del Fondo Ottava Brigata e da altri «in via di riordino» conservati all’Istituto Storico della Resistenza di Forlì; da documenti del Fondo 28ª Brigata conservati negli Archivi del Novecento di Ravenna; da documenti del Fondo Aldo Cucchi, conservati all’IRSIFAR; da documenti delle brigate Garibaldi e/o della Direzione Nord del PCI conservati all’Istituto Gramsci di Roma; da documenti “dimenticati” nell’Archivio Flamigni di Oriolo Romano; da documenti reperiti negli archivi militari britannici e tedeschi; da documenti dell’Archivio della Fondazione Comandante Libero e dell’Archivio Famiglia Fedel (in particolare: le lettere di Tabarri inviate nel 1946 alla sorella di mio padre, Anna Fedel). Voglio rivolgere, in conclusione di questa Nota, un abbraccio fraterno ai tanti che, in questi anni, si sono dimostrati vicini e hanno sostenuto questa mia “battaglia” e, soprattutto, a coloro i quali ne hanno compreso le ragioni più profonde, che non erano (solo) familiari e affettive, ma (anche) scientifiche e politiche.

Treviso, 9 luglio 2014 Giorgio Fedel

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